Il dollaro soprattutto negli ultimi vent’anni ha recitato il ruolo di protagonista negli scambi commerciali e finanziari internazionali. Il ruolo centrale è stato acquisito grazie alla grande stabilità della sua quotazione, che fondamentalmente era un riflesso dell’economia americana, sicuramente di riferimento per volumi dimensionali ma anche di complessità in termini di esportazioni e importazioni.
Tutti i paesi soprattutto quelli in via di sviluppo hanno sempre ambito a detenere il dollaro e titoli di stato americani, a discapito di quelli locali e cercando di sopperire alla mancanza di stabilità della moneta locale. I due casi emblematici sono la Russia e la Cina: la prima perché le proprie esportazioni si costituiscono quasi totalmente di materie prime, il cui prezzo è altamente volatile per eccellenza. La Cina dal canto proprio, avendo una economia totalmente votata all’export, prima di oggetti a basso valore aggiunto, ma ora lo scenario economico si evoluto, per il crescente costo del lavoro locale e l’utilizzo dello strumento di capitale (tecnologico) sempre maggiore.
Con l’avvento della crisi pandemica la geografia economica sta mutando, con gli USA e l’Europa che sembra debbano pagare il dazio più caro, dopo un il Sud e Centro America che davano già diversi segnali di emergenza economica e politica.
Il dollaro in questa situazione economica sta continuando il proprio declino, la Federal Reserve spinge per un allentamento quantitativo e tassi di interesse vicini allo zero per compensare l’impatto della crisi. Il ruolo della valuta americana come riserva universale è ora messo in discussione come mai prima d’ora.
A seguito della pandemia globale, gli economisti e gli esperti finanziari di tutto il mondo si sono ritrovati a dover rivalutare il ruolo del dollaro statunitense, che ha perso terreno rispetto a una serie di valute, scendendo di quasi il 5% a luglio e marcando il suo più grande crollo mensile in oltre 10 anni.
L’oro, bene rifugio per eccellenza, è salito vertiginosamente, grazie alle strategie degli investitori preoccupati da un mercato così incerto. Nel tentativo di compensare l’impatto della devastazione causata dal coronavirus, alcuni paesi hanno fatto ricorso ad altre opzioni nelle loro transazioni.
Russia e Cina, dunque, si trovano davanti ad una grande opportunità finanziaria per promuovere la “de-dollarizzazione”, come afferma il politologo russo-americano Dimitri Simes.
Attualmente, le statistiche supportano questa tendenza, poiché la quota di scambi in dollari statunitensi tra Mosca e Pechino è scesa al minimo storico, vale a dire del 46% nel primo trimestre del 2020, secondo i dati recenti forniti dalla Banca centrale russa e dal Servizio doganale federale.
Meno della metà delle transazioni tra i due paesi sono state effettuate in dollari nei primi tre mesi del 2020, con il 30% condotto in euro e il restante 24% nelle valute nazionali delle due nazioni.
Per avere un termine di paragone, nel 2015 quasi il 90% di tutte le transazioni tra Cina e Russia era stato condotto in dollari.
A tal proposito infatti, lo scorso giugno, i due paesi avevano siglato un accordo per allontanarsi dal dollaro nelle transazioni bilaterali a favore delle valute nazionali, lo yuan e il rublo.
Il peso che un’alleanza finanziaria tra Russia e Cina potrebbe esercitare sulla de-dollarizzazione è solo uno dei fattori che potenzialmente spingono verso il basso la domanda di valuta americana.
I tentativi di sostenere l’economia in difficoltà hanno spinto la Federal Reserve statunitense a stampare denaro e iniettarlo nel sistema bancario commerciale.
Tuttavia, secondo Oxford Economics, entro la fine del 2020 è previsto che la Fed abbia acquistato 3,5 trilioni di dollari di titoli di stato con questi dollari di nuova creazione, ma gli esperti di Wall Street avvertono che liberalizzando la stampa di denaro il governo americano rischia di svalutare ulteriormente la valuta, affrettandone il crollo.